Pensate a un imbuto da cui non scende niente. Oppure a una pila esausta: chi si alimenta nel suo unico mito, la moneta, presto si ammala, diventa una carcassa, una mummia che si deve arredare di merci per arricciare la sua anima stesa, defunta.
La modernità ha puntato sull’individuo, sulla razionalità, sulla promessa di un futuro che progredisce senza fine. Fino a un certo punto ha vinto e ha fatto pensare che la faccenda è vincere e invece la faccenda non sappiamo quale sia, forse è semplicemente stare nel tempo che passa, nello spazio che ci fa più lieti. La paesologia è una serena insofferenza a questo delirio che ha privato l’umanità del sacro e del suo fondo mitico. La modernità con la scusa di voler conoscere il mondo e guidarlo alla fine lo ha disincantato. Lo ha spento in un mare di merci e di opinioni.
Noi, forse, a momenti, con tante debolezze, abbiamo voglia di incantarlo nuovamente il mondo, di ingentilirlo. E non vogliamo farlo chissà quando, già lo stiamo facendo, la nostra stella è il giorno in corso, la passione di abitarlo in ogni suo angolo, di emozionare la nostra giornata piuttosto che dimenticarla nel piatto sporco del razionalismo, nello sgabuzzino dell’io solitario.
La paesologia parte dai paesi, cioè da luoghi in cui la modernità in fondo non ha mai attecchito veramente, è solo una spruzzata di superficie. Noi crediamo di più a quello che c’è sotto, pensiamo che l’arcaico vada filato nella Rete, pensiamo che la tecnica non vada respinta, non vogliamo tornare indietro, vogliamo stare nel mondo che c’è, ma liberi di vedere altro, liberi di non uscire ai caselli designati. Noi crediamo alle comunità provvisorie, a un fare che può essere impaziente e inoperoso, crediamo ai paesaggi in cui l’impronta degli animali vale più di un capannone, la nostra officina sono le nuvole, il vento, il fervore dei rami che stanno per partorire le foglie. Il mondo è vivo grazie alle foglie. Questa è la prima verità che dobbiamo proteggere. Poi ce ne sono altre e le vogliamo condividere, le vogliamo cantare.